lunedì 23 giugno 2014

Gigi Ghirotti. La mia esperienza presso l'hospice di Genova Bolzaneto

La mia esperienza di tirocinio, svolta presso l’Hospice di Bolzaneto dell’Associazione Gigi Ghirotti, è stata per me molto positiva, arricchente e formativa.
Non dimenticherò mai il giorno in cui sono entrata, per la prima volta, in Hospice, quando arrivai al quarto piano della Residenza di Bolzaneto, il 9 maggio scorso.
L’accoglienza che ho ricevuto fin dal primo momento da una volontaria lì presente mi ha subito fatto sentire ben accetta; ricordo che questa volontaria mi venne incontro, mi guardò e dopo esserci presentate, mi disse che mi stavano aspettando.
Il suo sorriso, i suoi modi garbati fecero svanire i miei timori; erano bastate poche parole, perché io non fossi più spaesata.
Entrando in Hospice, io varcavo la soglia di un mondo per me totalmente nuovo ed è per questo che il mio cuore batteva forte e la mia insicurezza, anche se celata, si faceva sentire.
 Non ho minimamente faticato ad inserirmi; giorno per giorno, ho avuto attenzioni e supporto sia da parte dei volontari, con cui ho collaborato, sia da parte di tutta l’equipe medica.
Una delle psicologhe dell’Associazione, ogni tanto mi chiedeva come procedesse il mio lavoro di tirocinante; a lei ho confidato i miei timori iniziali e la forza che, via via, andavo acquisendo; tale forza nasceva proprio instaurando relazioni emotive con i pazienti e i familiari.
Avevo cercato di immaginarmi l’ambiente, leggendo i notiziari redatti dall’Associazione e soprattutto dai racconti ascoltati presso la Sede Amministrativa di Corso Europa dell’Associazione, quando partecipai alla prima riunione, presieduta dal Prof. Henriquet, con i medici e gli infermieri dell’Associazione.
Quella che mi ero immaginata era una realtà diversa da quella effettiva.
Non avendo alcuna esperienza in questo settore, mi aspettavo un luogo freddo, asettico, un luogo simile a quello dei “nostri” ospedali.
La realtà dell’Hospice è invece totalmente diversa; in Hospice si respira un clima positivo, sereno, caldo, accogliente.
Alle pareti sono appesi tanti bei quadri; c’è una bacheca dove sono affisse fotografie di pazienti e nella sala dove c’è la biblioteca, ci sono tante piante verdi, che trasmettono serenità e speranza.
In fondo al lungo corridoio, che dalla reception porta verso l’ala destra della struttura, vi è una sala stupenda, con un pavimento antico molto ben conservato; in questa sala, vengono, a volte, ospitati concerti.
Ho partecipato un sabato pomeriggio a uno di questi concerti di musica classica; ritengo che il portare della bella e affascinante musica in un luogo come l’Hospice sia un segnale di speranza, di profonda umanità e benevolenza per i degenti; ricordo tante persone, sedute le une accanto alle altre, molte su carrozzine , che ascoltavano rapite la voce del soprano e del contralto; a questo concerto hanno partecipato molti familiari e pazienti anche di altri reparti della Residenza per anziani, che sono ospitati nei piani inferiori della struttura dell’ex Ospedale Pastorino.
L’Hospice è la struttura che ospita i malati terminali oncologici e di AIDS; è una delle stanze dell’Associazione, la “casa” che si prende cura sia molto professionalmente sia molto umanamente di malati terminali, fornendo anche e soprattutto assistenza domiciliare.
 In Hospice ci sono dodici camere, in cui trovano assistenza i malati terminali, che non possono essere curati a casa.
Ogni camera, molto luminosa e spaziosa, è dotata di due letti, uno per il paziente e una poltrona-letto per un familiare, un bagno, un frigorifero e la televisione; non esistono restrizioni per quanto riguarda gli orari delle visite; un familiare, se lo desidera, può fermarsi a dormire, durante la notte,
 nella camera del paziente.
Inoltre, ai pazienti è consentito portare da casa oggetti a loro cari, anche per abbellire o ravvivare la camera.
Ricordo che nella camera di un paziente, vi erano appesi vari quadri dipinti dal paziente stesso;
in molte stanze vi sono fiori, fotografie di parenti, nipotini, amici.
Proprio accanto alla reception, vi è un bagno assistito per i degenti; in fondo al corridoio, ai lati del salone, dove si svolgono i concerti, vi sono varie stanze, adibite a studi  per le riunioni e la Sala del cordoglio, dove vengono ospitati i parenti della persona, una volta che questa è deceduta, nell’attesa che venga preparata e portata nella camera mortuaria.
I parenti possono avere assistenza psicologica e supporto emotivo sia dai volontari presenti, sia dal personale medico che dalla psicologa.
Benché l’Hospice sia un luogo dove la sofferenza è palpabile, mai mi sono sentita sconfortata o abbandonata; ogni persona ha il proprio ruolo, e anch’io ho trovato la mia collocazione; l’equipe, formata da medici, infermieri, operatori socio-sanitari e volontari, si riunisce settimanalmente, per la discussione dei casi.
Per me, è stato di grande aiuto aver avuto la possibilità di prendere parte a tali riunioni, per avere una visione d’insieme del lavoro svolto in Hospice e per conoscere approfonditamente i pazienti e i loro mondi di vita.
La  dottoressa, responsabile dell’Hospice, presenta i casi nuovi all’equipe e tutti insieme discutono delle terapie da intraprendere, delle abilità ancora presenti nel paziente, dei suoi deficit, della sua storia di vita, del suo mondo familiare, di come è stato inserito in Hospice, dell’impatto che la persona ha avuto con la struttura e con il personale sanitario.
In Hospice, la filosofia che regna è diametralmente opposta a quella ospedaliera; innanzitutto, le camere dei pazienti non sono numerate, ma ciascuna ha il nome di un fiore, con l’immagine e il nome scientifico dello stesso (Calle, Primule, Girasoli, Margherite…) e, accanto, vi è il nome della persona, che lì trova rifugio.
Questo è un segnale tangibile che al centro di tutto vi è la persona e non la malattia.
Ho avuto modo di conoscere molti pazienti e familiari, durante i circa quattro mesi trascorsi in Hospice; dalla mia postazione, che era alla reception, ho potuto accogliere molti pazienti, ma soprattutto si rivolgevano a me i familiari, a volte, magari soltanto per scambiare due chiacchiere; il mio lavoro è stato quello di affiancare i volontari.
Ho fornito supporto psicologico e affettivo ai degenti e alle famiglie, con alcune delle quali ho stabilito un rapporto empatico forte; ho cercato di  aiutare i malati nella soddisfazione dei loro bisogni primari: ho dato loro da mangiare, da bere, li ho portati in giro in carrozzina, ma soprattutto li ho ascoltati, stando loro accanto.
Ho imparato molto di più da alcuni volontari, con cui ho collaborato assiduamente, che dalle letture sull’assistenza ai malati terminali.
Nei primi giorni trascorsi in Hospice, ero restia ad entrare nelle camere, poiché mi assalivano dubbi sul “Che dire”, “Cosa fare”; poi, un volontario, mi ha spiegato come era strutturato l’Hospice e mi ha accompagnato ai letti dei vari pazienti, mi ha introdotto in questa realtà per me totalmente nuova e molto interessante, mi ha accompagnato gradualmente verso una realtà per me molto forte emotivamente, ma altrettanto arricchente.
Dopo essermi presentata al malato e ai parenti eventualmente presenti, il dialogo nasceva molto spontaneamente; è stato  più facile di quello che mi sarei aspettata.
Mi sono sempre rivolta a ciascun paziente con un sorriso radioso; ho cercato di alleviare la loro sofferenza, con la mia spensieratezza di giovane donna.
Per uno dei pazienti, con cui è difficile instaurare la comunicazione verbale, in quanto G. ha difficoltà ad esprimersi, ma comprende quello che gli viene detto, ho preparato un foglio con delle icone, che rappresentano oggetti concreti o concetti astratti; ho scaricato da Internet delle figure, che rappresentano il caffè , l’acqua, il desiderio di mangiare, quello di uscire, aprire o chiudere la finestra, ecc.
Ricordo la gioia che trapelava dallo sguardo di G., quando gli portai questo foglio; a volte, quello che per noi persone sane, può apparire come una banalità, per una persona in stato avanzato di malattia, è invece molto importante anche perché è il segno che si è ancora importanti per gli altri, che si è nei pensieri degli altri, che non si è lasciati soli.
In un’occasione, sono stata accanto a una famiglia, nel momento particolare del distacco dal proprio congiunto; ho accompagnato uno dei familiari, che avevo conosciuto solo il giorno prima, ma con cui avevo cominciato a tessere un legame, all’interno della camera mortuaria, un luogo appena al di fuori della struttura dell’Hospice, che per l’ultima volta ospita la persona che lì è stata ricoverata.
Di alcuni pazienti, che ormai ci hanno lasciato, ho un ricordo intenso, che mai morirà.
Ho dovuto, mio malgrado, imparare a non affezionarmi troppo a queste persone, perché l’Hospice è un luogo dove le persone escono spesso, se non sempre, con le “gambe in avanti”, come disse una volontaria.
Non è facile mantenere il distacco, perché il rapporto che si instaura, l’empatia verso queste persone bisognose di tutto, ma soprattutto di amore è molto intenso.
Ho partecipato a varie riunioni, svoltesi in Hospice, assieme ai volontari, ai familiari, all’intera equipe, tenute da una psicoterapeuta molto competente; con lei abbiamo fatto esercizi di rilassamento e discusso di eventuali problematiche, dei nostri bisogni, desideri, aspettative.
Vorrei sottolineare che ciò che colpisce, entrando in Hospice, è che ciascun paziente è IL PAZIENTE, ossia una persona unica, irripetibile, con la sua storia; al di là della comunanza della malattia, ciascuno è una persona, non un numero tra i tanti.
Poter svolgere il mio tirocinio presso l’Hospice mi ha permesso di imparare a non empatizzare troppo, a mantenere il giusto distacco, per non essere risucchiata nel vortice impetuoso dei sentimenti e per essere, così, in grado di offrire il mio aiuto agli altri.
Potrebbe sembrare incredibile, soprattutto per chi non ha dimestichezza con questo luogo, ma, benché l’Hospice sia, purtroppo, per la maggioranza dei pazienti, un luogo di “sola andata”, mi è apparso come un’isola felice, dove la sofferenza non riesce ad avere la meglio sulla dignità delle persone e sui sentimenti positivi.
Il motto dell’Associazione, che molto mi ha fatto riflettere, è “CURARE ANCHE QUANDO NON SI PUO’ GUARIRE”; trovo che sia una frase incisiva e ricca di immenso significato, proprio perché è molto lontana dall’ideale performante, che permea la nostra attuale società occidentale.
 Il senso di tale frase è che ciascuno dona senso a sé stesso e agli altri, in qualunque momento della propria esistenza, anche quando si approssima al termine del proprio viaggio terreno o anche quando non è nel pieno delle sue capacità fisiche e psichiche.
In questi casi, con questi malati, l’accanimento terapeutico non può che essere dannoso; ciò che occorre loro è il contatto umano, se possibile il dialogo, la comunicazione che, anche se non verbale, può comunque essere arricchente ed efficace; ho imparato da queste persone, spesso divorate dalla malattia, da questi terribili e inarrestabili tumori, che la vicinanza, anche a volte silenziosa è ciò che conta.
L’abbandono, la solitudine renderebbero gli ultimi momenti della vita di queste persone invivibili; le cure palliative, che vengono loro prestate in Hospice, sono un antidoto fondamentale contro la disperazione.
 Delle cure palliative non fanno solo parte trattamenti terapeutici, la cosiddetta terapia del dolore; esse non equivalgono a una mera somministrazione di morfina, ma sono un complesso di cure, attenzioni rivolte a questa particolare categoria di malati, tenuto conto anche degli aspetti psicologici e spirituali; sono un prendersi cura della persona nella sua totalità.
 Il controllo del dolore è fondamentale; l’obiettivo delle cure palliative è il raggiungimento della migliore qualità di vita possibile per i malati e per le loro famiglie.
Durante il mio tirocinio, mi sono sforzata di diventare coraggiosa, di varcare la soglia di quelle camere “floreali” e ho imparato a stare vicina, senza timori, a queste persone, ad ascoltarle, ad ascoltare le loro storie di vita, i loro desideri, non sempre chiaramente intelligibili.
In un mondo in cui tutti ci parliamo addosso, e abbiamo normalmente questa “forma mentis”, non è facile imparare a stare in attento ascolto e silenzio; la mia esperienza di tirocinante mi ha donato anche questo.
Ogni persona che lì ho conosciuto, sia giovane sia meno giovane, è come un fiore, che pur avendo cominciato a perdere i propri petali, mantiene ancora la propria identità e unicità umana; ciascuno è prezioso, perché irrepetibile.
 Molte volte, ho provato tristezza, quando, entrando in Hospice, ho visto una certa porta chiusa, una stanza ormai vuota; lì, fino al giorno prima, vi aveva trovato rifugio G., o A., o M.; quella persona non era più tra noi, ma il ricordo in chi l’ha conosciuta, anche se per poco, come me, ma in un frangente così delicato della vita, non svanirà; ho provato anche dolore, rabbia, frustrazione per la mia impotenza, per non aver detto o fatto qualcosa per quella persona il giorno prima o l’ultima volta in cui c’eravamo incontrati; aver rimandato a un dopo certe azioni che avrei potuto compiere prima, mi ha amareggiato, perché la persona in questione non ha potuto aspettarmi.
Ho un ricordo molto vivido di una paziente, che avrebbe compiuto gli anni il 24 giugno, solo quattro giorni prima rispetto al mio compleanno; avevo pensato di portarle un regalo, una pianta di belle rose rosse; quando arrivai in Hospice, il giorno dopo il suo compleanno, vidi la porta della camera di G. chiusa; chiesi, allora, a un volontario dove fosse G.; sapevo che il desiderio di G. era di andare a casa per il suo compleanno; lui mi disse che se ne era andata ; io intuii che non era solo andata a casa , ma che ormai ci aveva lasciati.
Ricordo che provai rabbia, per non averle potuto dare il mio regalo o almeno, il mio ultimo saluto.
Il tirocinio ha significato per me un’occasione importante di mettere in pratica i miei studi, la psicologia e la pedagogia affrontate nei tanti esami sostenuti; è stata l’occasione di rendere concretamente significativa la tanta teoria studiata, durante i miei anni universitari.
 Ho capito che parlare, a volte, non serve, ma che un ascolto attento, uno sguardo rivolto verso l’Altro è un fattore fondamentale di comprensione reciproca, sia che l’Altro sia o no un malato.
La mia esperienza di tirocinante mi ha quasi fatto diventare una volontaria; in molti hanno ritenuto che io lo fossi (familiari, pazienti, volontari, infermieri) ; il supporto che ho dato ai volontari spero sia stato di aiuto, perché fare questo tirocinio presso l’Hospice non è stata una scelta casuale o un obbligo burocratico, o solo perché avrebbe rappresentato un aggancio alla mia tesi; ho voluto mettermi in gioco, per capire se in futuro io possa diventare un buon educatore.

Genova, 31 agosto 2005
Ludovica Bavastro





















1 commento:

  1. non mi sono perso una parola, lo strumento Hospice che prelude ad una morte accompagnata, è una grande alternativa a qualsiasi forma di eutanasia, sia quella cui si riferiva Jonas, sia quella più diretta di Singer. Avere vissuto questa esperienza non può che accrescere la propria confidenza con il dolore, che resta dolore ma la dignità lo rende meno crudele. Quello che mi è piaciuto, in modo particolare di questa "memoria" è l'assoluta normalità di questa esperienza, dove gli uomini/donne, malati terminali sono parte integrante e attiva di questo mondo descritto. La pietas romana può quindi entrare nel mondo dei malati, non la misericordia, ma la pietas, quale elemento strutturale dei " mos maiorum". Diritti e tradizione devono quindi unirsi per accompagnare quelli che stanno per lasciare.

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