La mia esperienza
di tirocinio, svolta presso l’Hospice di Bolzaneto dell’Associazione Gigi
Ghirotti, è stata per me molto positiva, arricchente e formativa.
Non dimenticherò
mai il giorno in cui sono entrata, per la prima volta, in Hospice, quando
arrivai al quarto piano della Residenza di Bolzaneto, il 9 maggio scorso.
L’accoglienza che ho ricevuto fin dal primo
momento da una volontaria lì presente mi ha subito fatto sentire ben accetta;
ricordo che questa volontaria mi venne incontro, mi guardò e dopo esserci
presentate, mi disse che mi stavano aspettando.
Il suo sorriso, i
suoi modi garbati fecero svanire i miei timori; erano bastate poche parole,
perché io non fossi più spaesata.
Entrando in
Hospice, io varcavo la soglia di un mondo per me totalmente nuovo ed è per
questo che il mio cuore batteva forte e la mia insicurezza, anche se celata, si
faceva sentire.
Non ho minimamente faticato ad inserirmi;
giorno per giorno, ho avuto attenzioni e supporto sia da parte dei volontari,
con cui ho collaborato, sia da parte di tutta l’equipe medica.
Una delle
psicologhe dell’Associazione, ogni tanto mi chiedeva come procedesse il mio
lavoro di tirocinante; a lei ho confidato i miei timori iniziali e la forza
che, via via, andavo acquisendo; tale forza nasceva proprio instaurando
relazioni emotive con i pazienti e i familiari.
Avevo cercato di
immaginarmi l’ambiente, leggendo i notiziari redatti dall’Associazione e
soprattutto dai racconti ascoltati presso la Sede Amministrativa di Corso
Europa dell’Associazione, quando partecipai alla prima riunione, presieduta dal
Prof. Henriquet, con i medici e gli infermieri dell’Associazione.
Quella che mi ero
immaginata era una realtà diversa da quella effettiva.
Non avendo alcuna
esperienza in questo settore, mi aspettavo un luogo freddo, asettico, un luogo
simile a quello dei “nostri” ospedali.
La realtà
dell’Hospice è invece totalmente diversa; in Hospice si respira un clima
positivo, sereno, caldo, accogliente.
Alle pareti sono
appesi tanti bei quadri; c’è una bacheca dove sono affisse fotografie di
pazienti e nella sala dove c’è la biblioteca, ci sono tante piante verdi, che
trasmettono serenità e speranza.
In fondo al lungo
corridoio, che dalla reception porta verso l’ala destra della struttura, vi è
una sala stupenda, con un pavimento antico molto ben conservato; in questa sala,
vengono, a volte, ospitati concerti.
Ho partecipato un
sabato pomeriggio a uno di questi concerti di musica classica; ritengo che il
portare della bella e affascinante musica in un luogo come l’Hospice sia un
segnale di speranza, di profonda umanità e benevolenza per i degenti; ricordo
tante persone, sedute le une accanto alle altre, molte su carrozzine , che
ascoltavano rapite la voce del soprano e del contralto; a questo concerto hanno
partecipato molti familiari e pazienti anche di altri reparti della Residenza
per anziani, che sono ospitati nei piani inferiori della struttura dell’ex
Ospedale Pastorino.
L’Hospice è la
struttura che ospita i malati terminali oncologici e di AIDS; è una delle
stanze dell’Associazione, la “casa” che si prende cura sia molto
professionalmente sia molto umanamente di malati terminali, fornendo anche e
soprattutto assistenza domiciliare.
In Hospice ci sono dodici camere, in cui
trovano assistenza i malati terminali, che non possono essere curati a casa.
Ogni camera, molto
luminosa e spaziosa, è dotata di due letti, uno per il paziente e una
poltrona-letto per un familiare, un bagno, un frigorifero e la televisione; non
esistono restrizioni per quanto riguarda gli orari delle visite; un familiare,
se lo desidera, può fermarsi a dormire, durante la notte,
nella camera del paziente.
Inoltre, ai
pazienti è consentito portare da casa oggetti a loro cari, anche per abbellire
o ravvivare la camera.
Ricordo che nella
camera di un paziente, vi erano appesi vari quadri dipinti dal paziente stesso;
in molte stanze vi
sono fiori, fotografie di parenti, nipotini, amici.
Proprio accanto
alla reception, vi è un bagno assistito per i degenti; in fondo al corridoio,
ai lati del salone, dove si svolgono i concerti, vi sono varie stanze, adibite
a studi per le riunioni e la Sala del cordoglio, dove
vengono ospitati i parenti della persona, una volta che questa è deceduta,
nell’attesa che venga preparata e portata nella camera mortuaria.
I parenti possono
avere assistenza psicologica e supporto emotivo sia dai volontari presenti, sia
dal personale medico che dalla psicologa.
Benché l’Hospice
sia un luogo dove la sofferenza è palpabile, mai mi sono sentita sconfortata o
abbandonata; ogni persona ha il proprio ruolo, e anch’io ho trovato la mia
collocazione; l’equipe, formata da medici, infermieri, operatori socio-sanitari
e volontari, si riunisce settimanalmente, per la discussione dei casi.
Per me, è stato di
grande aiuto aver avuto la possibilità di prendere parte a tali riunioni, per
avere una visione d’insieme del lavoro svolto in Hospice e per conoscere approfonditamente
i pazienti e i loro mondi di vita.
La dottoressa, responsabile dell’Hospice, presenta
i casi nuovi all’equipe e tutti insieme discutono delle terapie da
intraprendere, delle abilità ancora presenti nel paziente, dei suoi deficit,
della sua storia di vita, del suo mondo familiare, di come è stato inserito in
Hospice, dell’impatto che la persona ha avuto con la struttura e con il
personale sanitario.
In Hospice, la
filosofia che regna è diametralmente opposta a quella ospedaliera;
innanzitutto, le camere dei pazienti non sono numerate, ma ciascuna ha il nome
di un fiore, con l’immagine e il nome scientifico dello stesso (Calle, Primule,
Girasoli, Margherite…) e, accanto, vi è il nome della persona, che lì trova
rifugio.
Questo è un
segnale tangibile che al centro di tutto vi è la persona e non la malattia.
Ho avuto modo di
conoscere molti pazienti e familiari, durante i circa quattro mesi trascorsi in
Hospice; dalla mia postazione, che era alla reception, ho potuto accogliere
molti pazienti, ma soprattutto si rivolgevano a me i familiari, a volte, magari
soltanto per scambiare due chiacchiere; il mio lavoro è stato quello di
affiancare i volontari.
Ho fornito
supporto psicologico e affettivo ai degenti e alle famiglie, con alcune delle
quali ho stabilito un rapporto empatico forte; ho cercato di aiutare i malati nella soddisfazione dei loro
bisogni primari: ho dato loro da mangiare, da bere, li ho portati in giro in
carrozzina, ma soprattutto li ho ascoltati, stando loro accanto.
Ho imparato molto
di più da alcuni volontari, con cui ho collaborato assiduamente, che dalle
letture sull’assistenza ai malati terminali.
Nei primi giorni
trascorsi in Hospice, ero restia ad entrare nelle camere, poiché mi assalivano
dubbi sul “Che dire”, “Cosa fare”; poi, un volontario, mi ha spiegato come era
strutturato l’Hospice e mi ha accompagnato ai letti dei vari pazienti, mi ha
introdotto in questa realtà per me totalmente nuova e molto interessante, mi ha
accompagnato gradualmente verso una realtà per me molto forte emotivamente, ma
altrettanto arricchente.
Dopo essermi
presentata al malato e ai parenti eventualmente presenti, il dialogo nasceva
molto spontaneamente; è stato più facile
di quello che mi sarei aspettata.
Mi sono sempre
rivolta a ciascun paziente con un sorriso radioso; ho cercato di alleviare la
loro sofferenza, con la mia spensieratezza di giovane donna.
Per uno dei
pazienti, con cui è difficile instaurare la comunicazione verbale, in quanto G.
ha difficoltà ad esprimersi, ma comprende quello che gli viene detto, ho
preparato un foglio con delle icone, che rappresentano oggetti concreti o
concetti astratti; ho scaricato da Internet delle figure, che rappresentano il
caffè , l’acqua, il desiderio di mangiare, quello di uscire, aprire o chiudere
la finestra, ecc.
Ricordo la gioia
che trapelava dallo sguardo di G., quando gli portai questo foglio; a volte,
quello che per noi persone sane, può apparire come una banalità, per una
persona in stato avanzato di malattia, è invece molto importante anche perché è
il segno che si è ancora importanti per gli altri, che si è nei pensieri degli
altri, che non si è lasciati soli.
In un’occasione,
sono stata accanto a una famiglia, nel momento particolare del distacco dal proprio
congiunto; ho accompagnato uno dei familiari, che avevo conosciuto solo il
giorno prima, ma con cui avevo cominciato a tessere un legame, all’interno
della camera mortuaria, un luogo appena al di fuori della struttura
dell’Hospice, che per l’ultima volta ospita la persona che lì è stata
ricoverata.
Di alcuni pazienti,
che ormai ci hanno lasciato, ho un ricordo intenso, che mai morirà.
Ho dovuto, mio
malgrado, imparare a non affezionarmi troppo a queste persone, perché l’Hospice
è un luogo dove le persone escono spesso, se non sempre, con le “gambe in
avanti”, come disse una volontaria.
Non è facile
mantenere il distacco, perché il rapporto che si instaura, l’empatia verso
queste persone bisognose di tutto, ma soprattutto di amore è molto intenso.
Ho partecipato a
varie riunioni, svoltesi in Hospice, assieme ai volontari, ai familiari,
all’intera equipe, tenute da una psicoterapeuta molto competente; con lei
abbiamo fatto esercizi di rilassamento e discusso di eventuali problematiche,
dei nostri bisogni, desideri, aspettative.
Vorrei
sottolineare che ciò che colpisce, entrando in Hospice, è che ciascun paziente
è IL PAZIENTE, ossia una persona unica, irripetibile, con la sua storia; al di
là della comunanza della malattia, ciascuno è una persona, non un numero tra i
tanti.
Poter svolgere il mio
tirocinio presso l’Hospice mi ha permesso di imparare a non empatizzare troppo,
a mantenere il giusto distacco, per non essere risucchiata nel vortice
impetuoso dei sentimenti e per essere, così, in grado di offrire il mio aiuto
agli altri.
Potrebbe sembrare
incredibile, soprattutto per chi non ha dimestichezza con questo luogo, ma,
benché l’Hospice sia, purtroppo, per la maggioranza dei pazienti, un luogo di
“sola andata”, mi è apparso come un’isola felice, dove la sofferenza non riesce
ad avere la meglio sulla dignità delle persone e sui sentimenti positivi.
Il motto
dell’Associazione, che molto mi ha fatto riflettere, è “CURARE ANCHE QUANDO NON
SI PUO’ GUARIRE”; trovo che sia una frase incisiva e ricca di immenso
significato, proprio perché è molto lontana dall’ideale performante, che permea
la nostra attuale società occidentale.
Il senso di tale frase è che ciascuno dona
senso a sé stesso e agli altri, in qualunque momento della propria esistenza,
anche quando si approssima al termine del proprio viaggio terreno o anche
quando non è nel pieno delle sue capacità fisiche e psichiche.
In questi casi,
con questi malati, l’accanimento terapeutico non può che essere dannoso; ciò
che occorre loro è il contatto umano, se possibile il dialogo, la comunicazione
che, anche se non verbale, può comunque essere arricchente ed efficace; ho
imparato da queste persone, spesso divorate dalla malattia, da questi terribili
e inarrestabili tumori, che la vicinanza, anche a volte silenziosa è ciò che
conta.
L’abbandono, la
solitudine renderebbero gli ultimi momenti della vita di queste persone
invivibili; le cure palliative, che vengono loro prestate in Hospice, sono un
antidoto fondamentale contro la disperazione.
Delle cure palliative non fanno solo parte
trattamenti terapeutici, la cosiddetta terapia del dolore; esse non equivalgono
a una mera somministrazione di morfina, ma sono un complesso di cure,
attenzioni rivolte a questa particolare categoria di malati, tenuto conto anche
degli aspetti psicologici e spirituali; sono un prendersi cura della persona
nella sua totalità.
Il controllo del dolore è fondamentale;
l’obiettivo delle cure palliative è il raggiungimento della migliore qualità di
vita possibile per i malati e per le loro famiglie.
Durante il mio
tirocinio, mi sono sforzata di diventare coraggiosa, di varcare la soglia di
quelle camere “floreali” e ho imparato a stare vicina, senza timori, a queste
persone, ad ascoltarle, ad ascoltare le loro storie di vita, i loro desideri,
non sempre chiaramente intelligibili.
In un mondo in cui
tutti ci parliamo addosso, e abbiamo normalmente questa “forma mentis”, non è
facile imparare a stare in attento ascolto e silenzio; la mia esperienza di
tirocinante mi ha donato anche questo.
Ogni persona che
lì ho conosciuto, sia giovane sia meno giovane, è come un fiore, che pur avendo
cominciato a perdere i propri petali, mantiene ancora la propria identità e
unicità umana; ciascuno è prezioso, perché irrepetibile.
Molte volte, ho provato tristezza, quando,
entrando in Hospice, ho visto una certa porta chiusa, una stanza ormai vuota;
lì, fino al giorno prima, vi aveva trovato rifugio G., o A., o M.; quella
persona non era più tra noi, ma il ricordo in chi l’ha conosciuta, anche se per
poco, come me, ma in un frangente così delicato della vita, non svanirà; ho
provato anche dolore, rabbia, frustrazione per la mia impotenza, per non aver
detto o fatto qualcosa per quella persona il giorno prima o l’ultima volta in
cui c’eravamo incontrati; aver rimandato a un dopo certe azioni che avrei
potuto compiere prima, mi ha amareggiato, perché la persona in questione non ha
potuto aspettarmi.
Ho un ricordo
molto vivido di una paziente, che avrebbe compiuto gli anni il 24 giugno, solo
quattro giorni prima rispetto al mio compleanno; avevo pensato di portarle un
regalo, una pianta di belle rose rosse; quando arrivai in Hospice, il giorno
dopo il suo compleanno, vidi la porta della camera di G. chiusa; chiesi,
allora, a un volontario dove fosse G.; sapevo che il desiderio di G. era di
andare a casa per il suo compleanno; lui mi disse che se ne era andata ; io
intuii che non era solo andata a casa , ma che ormai ci aveva lasciati.
Ricordo che provai
rabbia, per non averle potuto dare il mio regalo o almeno, il mio ultimo
saluto.
Il tirocinio ha
significato per me un’occasione importante di mettere in pratica i miei studi,
la psicologia e la pedagogia affrontate nei tanti esami sostenuti; è stata
l’occasione di rendere concretamente significativa la tanta teoria studiata, durante
i miei anni universitari.
Ho capito che parlare, a volte, non serve, ma
che un ascolto attento, uno sguardo rivolto verso l’Altro è un fattore
fondamentale di comprensione reciproca, sia che l’Altro sia o no un malato.
La mia esperienza
di tirocinante mi ha quasi fatto diventare una volontaria; in molti hanno
ritenuto che io lo fossi (familiari, pazienti, volontari, infermieri) ; il
supporto che ho dato ai volontari spero sia stato di aiuto, perché fare questo
tirocinio presso l’Hospice non è stata una scelta casuale o un obbligo
burocratico, o solo perché avrebbe rappresentato un aggancio alla mia tesi; ho
voluto mettermi in gioco, per capire se in futuro io possa diventare un buon
educatore.
Genova, 31 agosto
2005
Ludovica Bavastro
non mi sono perso una parola, lo strumento Hospice che prelude ad una morte accompagnata, è una grande alternativa a qualsiasi forma di eutanasia, sia quella cui si riferiva Jonas, sia quella più diretta di Singer. Avere vissuto questa esperienza non può che accrescere la propria confidenza con il dolore, che resta dolore ma la dignità lo rende meno crudele. Quello che mi è piaciuto, in modo particolare di questa "memoria" è l'assoluta normalità di questa esperienza, dove gli uomini/donne, malati terminali sono parte integrante e attiva di questo mondo descritto. La pietas romana può quindi entrare nel mondo dei malati, non la misericordia, ma la pietas, quale elemento strutturale dei " mos maiorum". Diritti e tradizione devono quindi unirsi per accompagnare quelli che stanno per lasciare.
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